Home » Laboratorio Sociale » Laici in una dimensione sinodale

Laici in una dimensione sinodale

Aprile 2023

 

La riflessione che segue ci è stata proposta durante l'incontro "Laici in una dimensione sinodale" proposto dalle Acli di Como e di Sondrio il 1 aprile a Chiavenna.

 

Excursus storico.

Papa Leone XIII agli albori del XX secolo, con la “Rerum Novarum”, chiese alla Chiesa intera di fare propri gli impegni del mondo del lavoro, per tutelare e dare dignità alla persona umana che veniva subordinata, nei suoi valori, al successo del profitto di pochi.

La riscoperta dell’apostolato del laicato per l’evangelizzazione e per la vita della Chiesa, prima del Vaticano II la si deve a Pio XI, con il mandato al laicato cattolico di collaborare con la

gerarchia ecclesiastica ed essere lievito nella realtà secolare. L’Azione Cattolica sorge proprio con questo scopo e missione. Nella metà del secolo scorso nascono diverse associazioni laicali per la spiritualità e l’apostolato nel mondo. Pio XII approva con la “Provida Mater” gli Istituti Secolari, formati da uomini e donne laici, consacrati e associati, che vivono il loro impegno di discepolato a Cristo negli ambienti di lavoro materiale, culturale, sociale o sanitario, per essere lievito evangelico in un mondo che cambia e spesso si orienta lontano dai valori spirituali e morali.

Il Concilio Vaticano II vuole “riprendere in mano” la figura, l’identità e la missione del laico e lo fa oltre che nella costituzione “Lumen Gentium” anche nel decreto “Apostolicam Actuositatem”, dedicato interamente proprio ai Cristifideles. Ciò che teologicamente dà una caratteristica fondamentale è il capitolo II della “Lumen Gentium”, titolato “De Populo Dei”, dove ai nn. 10 e 11 viene sottolineato che i Christifideles, in virtù del battesimo, vengono “consecrantur… in sacerdotium sanctum” (n.10). Tale sacerdozio comune dei fedeli differisce dal sacerdozio gerarchico essenzialmente e non solo per gradi, ma sono ordinati l’uno all’altro.

Questa dimensione identitaria del laico parte integrante del Popolo di Dio lo rende anche corresponsabile non solo dell’evangelizzazione, della vita stessa della comunità cristiana. Infatti dice il Concilio, citando 1 Pt. 2,4-10, che “i laici vengono consacrati per formare un sacerdozio regale e una nazione santa” (AA n.3). La formazione della “nazione santa” implica comunione e corresponsabilità. È proprio in questa linea orientata all’edificazione del popolo di Dio, con e sotto la guida dei Pastori, che Papa Francesco, oltre a voler istituire nella stabilità alcuni ministeri come quelli dei lettori e dei catechisti senza discriminazione di genere, ha anche voluto dare un ampliamento agli “attori” del Sinodo che nasce come assemblea riservata ai Vescovi, poi ampliata a Vescovi e presbiteri e ad alcuni laici, come nella riforma del Sinodo diocesano dopo il Vaticano II.

Laicato e Sinodalità: premesse per un processo

Il Papa ha voluto un Sinodo sulla “sinodalità”, che egli intende dovere-diritto dei membri dell’intero popolo di Dio per vivere appieno il dono di essere Chiesa. Ciò che ci deve costantemente richiamare è la necessità che ogni comunità parrocchiale, ogni associazione laicale, ogni organismo ecclesiale tengano presente che “...la sinodalità rappresenta la strada maestra per la Chiesa (a sessant’anni dal Concilio Vaticano II) a rinnovarsi sotto l’azione dello Spirito e grazie all’ascolto della Parola… La sinodalità in questa prospettiva è ben più che la celebrazione di incontri ecclesiali e assemblee di vescovi, o una questione di semplice amministrazione interna alla Chiesa. Essa indica lo specifico modus vivendi et operandi della Chiesa-popolo di Dio che manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente con tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice...” (Sinodo 2021-2023 doc prep. nn. 9-10).

Questo processo ha bisogno di una maggior presa di coscienza ecclesiale. La mia impressione è che spesso si confonda la sinodalità come  processo di democratizzazione della chiesa, o come attuazione di una esperienza particolare (America Latina), oppure come  una discussione sulla suddivisione di poteri da distribuire all’interno delle parrocchie e delle diocesi. Mentre si dimentica che la chiesa vive animata dallo/nello Spirito Santo e respira con le questioni del mondo, con le domande sull’annunzio del Vangelo, con i temi della cultura, della società e della politica, della morale come delle vocazioni: è l’Ekklesia (ri-unita nel suo nome) nel mondo e per il mondo.

E’ necessario quindi non fare della sinodalità un altro tema “moda”, uno slogan privo di concretezza ecclesiale. Sono necessari alcuni processi che rendono possibile questo “modus vivendi e operandi” dell’intero popolo di Dio. Temi che vanno affrontati come premesse per un cammino sinodale reale e credibile.  Solo così comprendiamo anche il nesso fra laicato e sinodalità.

Laici, cristiani in solitudine

Di chi stiamo parlando? “Esiste ancora il laicato?”, è il titolo di un libro di Paola Bignardi in occasione del   50° del Concilio (2012). Undici anni fa il titolo del libro includeva un punto di domanda perché era pur sempre espressione di un’esperienza di Chiesa percorsa da tensioni positive.  Il punto di domanda lasciava supporre si potesse trasformare in un punto esclamativo. In questi anni non è accaduto, e sarebbe troppo lungo esaminare le ragioni per cui le cose sono andate così. Le trasformazioni della cultura diffusa e della società hanno avuto sulla coscienza dei cristiani e sulla Chiesa un impatto forte. “Il laicato, come l’insieme di coloro che vivono secondo lo stesso stile spirituale non esiste più”.

Esistono laici cristiani che vivono in solitudine – non necessariamente significa in maniera privata – la bellezza del Vangelo e condividono lo stesso stile anche con donne e uomini che testimoniano gli stessi valori, anche a prescindere dall’adesione alla fede. Ovviamente la loro è un’esperienza difficile e rischiosa, soprattutto perché è solitaria, frammentata, “liquida”; ma questa è la realtà di oggi. È questo anche esito della riduzione delle realtà associative (laicato italiano). Laici cresciuti e operanti in un laicato attivo come Paola Bignardi, Andrea Riccardi, Luigino Bruni, Fulvio De Giorgi, Rosario Carello hanno coniato termini emblematici come “Auto-segregazione involontaria”, “Il brutto anatroccolo”. “Laici nel terzo millennio: afasia o testimonianza?” Soprattutto: “Irrilevanza dei laici”.

È vero, d’altra parte, che negli ultimi anni in molte diocesi e perfino in alcuni dicasteri vaticani, i laici hanno raggiunto ruoli di grande responsabilità (basti citare il nuovo prefetto della Segreteria per l’economia, Maximino Caballero Ledo, che era già il numero due del dicastero o il prefetto del dicastero per la comunicazione Paolo Ruffini). Ciò è certamente positivo. Al tempo stesso  ritengo non sia sufficiente, anzi potrebbe ingenerare una sorta “d’illusione”, al fine di  affermare che sta crescendo nella Chiesa il ruolo e la soggettività responsabile laicale.

Infatti non dovremmo meravigliarci di un fatto che dovrebbe essere naturale. Molto dipende dalle “regole del gioco”. Dipende dalla possibilità che questi laici hanno di portare la loro cultura professionale ed ecclesiale, dalla possibilità o meno di contribuire realmente alla maturazione degli orientamenti ancor prima che delle decisioni (es. qual è la responsabilità riconosciuta al laico nelle scelte amministrative ecclesiali?). E in seconda battuta all’educazione condivisa delle dinamiche delle “nuove regole di gioco”: carente è l’esperienza di una formazione al discernimento comunitario, vero e proprio esercizio spirituale (basti pensare alla fatica dell’ascolto come esercizio credente). Quindi due questioni non sono risolte: quella giuridica e quella della formazione delle nuove regole in gioco. Come si vive un vero discernimento comunitario? Esperienze significative cercasi!

Clericalismo di riflesso

Un elemento che ostacola una reale assunzione di corresponsabilità sinodale nel laicato è poi il clericalismo. Clericalismo tanto richiamato da Papa Francesco (es. fonte degli abusi), clericalismo dei presbiteri ma anche dei laici.  Il clericalismo dei laici ha un tratto caricaturale che umilia i laici e le comunità cristiane tutte, ma è un clericalismo di riflesso: è l’esito di un modo di pensare le relazioni ecclesiali tutte centrate sulla vita interna della Chiesa e sulle sue funzioni di potere (amministrativo-economico, sacramentale, spirituale, morale, liturgico, evangelizzante, culturale, intellettuale, di genere).

"Questo modo di vivere ha tante cause, ma le principali di esse sono in un esercizio dell’autorità che crea distanza e atteggiamenti di dipendenza”. E d’altra parte anche in un modo di pensare la Chiesa sopra il mondo (sudditanza) o di fronte al mondo (parallela), o senza il mondo (indifferenza): ciò porta ad una distanza dalla realtà degli stessi laici. Questo clericalismo nasconde disprezzo per il mondo e paura delle comuni dinamiche familiari, sociali, professionali. È diffuso così un clericalismo innaturale, che assolutizza le “cose di Chiesa” (Andrea Riccardi parla di post-tridentismo): un laicato che non riesce più a cogliere il rapporto  tra la comunità cristiana e il contesto in cui è radicata, e, quando lo fa, lo fa in modo oppositivo, difensivo (basti pensare la modalità in cui affrontiamo il tema del fine vita o di genere) o insignificante e dispersivo (es. il tema della guerra). Il risultato è quello di interpretare le difficoltà del cristianesimo di oggi attribuendone la colpa a “un mondo cattivo”, senza riuscire a fare un po’ di autocritica e di verifica. Così facendo si perde ogni possibilità di confronto dialettico con la cultura dominante.

Convivialità di differenze

Quindi oggi non è centrale una riflessione tanto sul ruolo del laico in modo generico, ma di esso in relazione alle altre vocazioni ecclesiali e in rapporto al mondo, all’umanità in quanto tale. E che tutti insieme, i battezzati che costituiscono il popolo di Dio, siano protagonisti di questo cammino sinodale, che il Papa auspica “dal basso”. Un popolo cioè capace di convivialità: la convivialità delle differenze come direbbe Ivan Illic. Tema caro anche a don Tonino Bello, “...Il genere umano, Signore, è chiamato a vivere sulla terra ciò che le tre Persone divine vivono nel cielo: la convivialità delle differenze. Nel cielo, più persone mettono tutto in comunione sul tavolo della stessa divinità, così che fra loro rimane intrasferibile solo l’identikit personale di ciascuno, che è rispettivamente l’essere Padre, l’essere Figlio, l’essere Spirito Santo. Sulla terra, gli uomini sono chiamati a vivere secondo questo archetipo trinitario: a mettere, cioè, tutto in comunione sul tavolo della stessa umanità, trattenendo per sé solo ciò che fa parte del proprio identikit personale...”.

Questo è il fondamento teologico. Trovo importante che si ponga oggi l’accento sul popolo di Dio come soggetto della vita ecclesiale e della missione della Chiesa. Ma essere tutti protagonisti non significa essere tutti uguali. Vi è una dinamica di omologazione che da trent’anni a questa parte ha proposto un ideale di comunione ecclesiale che ha appiattito tutte le differenze, che ha spento l’innovazione, che ha escluso espressioni ecclesiali che nulla avevano di sovversivo, ma che semplicemente introducevano una differente sensibilità ed esperienza ecclesiale.

La sinodalità “dal basso” di cui parla Papa Francesco avrebbe bisogno di un preliminare: cercare tutti quei laici – e non solo loro – che in questi anni si sono allontanati dalla Chiesa perché non sono più riusciti a condividere la sua cultura rivolta solo al passato, oppure perché non sono più stati disposti a essere trattati con quell’atteggiamento infantilizzante che nella comunità cristiana privilegia la dipendenza sull’intraprendenza, il potere da gestire più che l’ascolto paziente, l’autorità a tutti i costi più che il discernimento comunitario. Allora sarà possibile parlare di un cammino sinodale dal basso e di un’esperienza ecclesiale all’insegna del coinvolgimento non strumentale e funzionale alle cose da fare, ma alla ricerca di un modo attuale di vivere il Vangelo. A partire dall’ascolto di queste esperienze si potrà anche avviare in modo nuovo una riflessione sul ruolo del laico; e tutte le vocazioni potranno essere valorizzate.

Diversi modi di illuminare l’esistenza

Un altro tema è quello che il Papa solleva quando chiama il popolo soggetto “fedele”, e “infallibile” nel suo esercizio di fede (sensus fidei), cioè come soggetto primario del cammino sinodale. Non esiste una frattura fra élite e popolo, fra pochi prescelti e il resto. Va cambiato lo sguardo sulla corresponsabilità laicale.  Esistono livelli diversi di coinvolgimento, di impegno nella vita cristiana, di cammini spirituali. Dovremmo promuovere diversi modi di vivere la fede e di interpretare la propria esperienza esistenziale. Tutto rientra in quell’articolazione che dovrebbe caratterizzare la comunità cristiana.

Questo è più evidente oggi, per il carattere plurale della cultura e della società di cui siamo parte. E rimanda anche questo all’idea di una Chiesa che è comunione di diversi, che è armonia di differenze. “Se la Chiesa oggi riuscisse a vivere pienamente questa dimensione così essenziale e originale della sua vita, darebbe per ciò stesso un grande contributo a una società nella quale il pluralismo si esaspera nella frammentazione e le differenze generano conflittualità”.  Vi sono poi alcune condizioni esistenziali che andrebbero riconosciute nel valore simbolico, accolte e valorizzate proprio per questo dono, quasi un carisma naturale, che reca ricchezza con il solo proprio essere e andrebbe valorizzato per questo, a prescindere dal contributo concreto che esse danno alla comunità e alla sua azione pastorale (uscire dalla funzionalità pastorale).

Papa Francesco parla spesso dei poveri, come un sacramento; nella “Fratelli Tuttili ha definiti “poeti sociali” (n. 169). Ma potremmo parlare di un sacramento esteso: penso alle donne, e al valore della loro presenza come custodi della vita, della cura, della passione. Oppure ai giovani, la cui esperienza reca quella novità che spinge verso il futuro la Chiesa e le impedisce di invecchiare. Penso alla famiglia, di cui da tempo si dice che è destinata a essere soggetto pastorale, in un’azione di cui si stenta a trovare non tanto i risvolti operativi, quanto i significati profondi. Penso ai soggetti disabili, alle nuove fragilità quando continuiamo a fare l’elogio della debolezza e del limite. Naturalmente non è che la vita, la novità, l’amore siano esclusiva di queste condizioni, ma esse le rappresentano come segno per tutti, proprio come un “sacramento”. Se ci fosse consapevolezza di quanto sia cruciale la presenza delle donne, dei giovani, delle nuove fragilità nella comunità si sarebbe meno distratti nei confronti di ciò che gli osservatori più attenti stanno vedendo: cioè il progressivo e rapido allontanamento dalla Chiesa di queste componenti essenziali”.

Associazionismo e movimentismo laico

La sinodalità riguarda tutti ma non è che una comunità ecclesiale per essere vivace deve mortificare le singole soggettività che sono presenti in essa. Credo che questa stagione ecclesiale abbia bisogno di intraprendenza, di vivacità; abbia bisogno di qualcuno con l’audacia di spingersi anche in “territori” rischiosi e inesplorati. Ciascuno con il proprio carisma. Nella chiesa è dono il carisma non la struttura. Le associazioni e i movimenti possono e devono farlo a maggior titolo. Il valore particolare delle esperienze aggregative è quello di poter sperimentare, di mettere la loro vivacità a servizio della novità: senza esibizionismi e senza presunzione, ma con autenticità e coraggio. E mentre osano, devono saper conservare l’umiltà di chi si sente parte di una Chiesa più grande e continua a sentirsi non solo a servizio di essa, ma relativo ad essa. Abbiamo un cammino aperto e ricco.

La formazione: per educare ad uno sguardo lungoTutto questo non si improvvisa. Come coniugare questa attenzione al popolo e questo ascolto sincero con l’esigenza di una qualificata formazione laicale?

Viviamo da anni in un clima da emergenza, che la pandemia ha messo in risalto in maniera particolare. “Ma la difficoltà – la “crisi” – della Chiesa non è data da oggi. Spesso nell’emergenza si smette di progettare, di guardare lontano”. Si immagina di uscirne con un’azione che quasi sempre risulta miope. La formazione ha bisogno di sguardo lungo. La formazione costruisce in profondità e getta lo sguardo lontano. Spesso non se ne vedono i risultati nell’immediato. Per questo fa formazione chi è capace di fiducia e di responsabilità verso il futuro, e crede al valore anche di ciò che opera in modo invisibile.  “Eppure proprio di formazione ci sarebbe bisogno oggi, cioè di azioni, di progetti, di impegni volti a ricostruire il tessuto umano ed evangelico delle nostre comunità”. Penso al bisogno che c’è oggi di riconoscere il valore della mitezza, della compassione, della fedeltà alle relazioni, della cura per le dimensioni interiori della vita. La formazione è azione che dà valore al quotidiano, all’ordinario, quello che si vive nella ferialità; che ha il suo luogo privilegiato nella casa; quello che fa appello alla solidità della coscienza e non ha altri appoggi in iniziative, strutture, eventi…   Un esempio fra tutti: va affrontata la cultura dell’eterna giovinezza che non fa maturare l’adulto di oggi (A. Matteo, Convertire Peter Pan). Non si intravedono ancora processi che affrontano questo tema e che vedono l’adulto come soggetto da ri-educare (tante forze pastorali sono ancora rivolte all’infante).

Reinterpretare il cristianesimo nella cultura attuale

La missione della Chiesa nel mondo di oggi e l’autenticità stessa della Chiesa non ha bisogno di laici che smettano di essere tali per essere parte attiva di essa. Gente che conosca e viva con passione la professione, la famiglia, gli impegni civili e sociali. Ciò che realmente auspico è un cambio di impostazione delle comunità e della Chiesa tutta, per affrontare la vera grande sfida di oggi, che è la reinterpretazione del cristianesimo nella cultura attuale. E questo lo si fa non stando sulla soglia della sagrestia, ma stando dentro le situazioni reali della vita di tutti. “I laici sono “la Chiesa che è già uscita”, ma che hanno bisogno di poter far giungere la loro voce là dove la Chiesa pensa se stessa e il proprio rapporto con la vita e con il mondo”.  Questo è il vero, grande, coraggioso contributo che i laici sono chiamati a dare oggi; perché questo accada, occorre da parte della Chiesa istituzionale il coraggio di ascoltarli, di mettersi con loro in un dialogo reale, e di tener conto delle loro intuizioni e sensibilità. Forse il “sensus fidei” percorre anche questa strada. Solo così si avvierà un processo di vera sinodalità.

don Andrea Caelli,  Vicario Foraneo di Chiavenna e Prata Camportaccio