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Nella modernità c'è ancora spazio per la contemplazione?

Giugno 2022

Siamo tutti noi, consciamente o meno, immersi nella “modernità”, intesa come epoca contemporanea dove per stare appunto al passo con i tempi è diventata consuetudine inseguire una certa idea di velocità, la quale avviluppa ogni attività umana: è un modello sociale che ci obbliga a vivere di fretta, a non sprecare tempo ma anzi a “guadagnarne” di ulteriore, giacché lo stesso non è mai abbastanza per poter sovraintendere a tutte le incombenze dalle quali spesso siamo soggiogati.  Questa esistenza tesa ad aumentarne la sua “produttività materiale” ci spinge verso una perenne affannosa gara a fare sempre di più; così mancano i momenti per vedere chi ci sta intorno e cosa c’è là fuori poco oltre il nostro naso, ma anche i danni che questo paradigma operativo causa, sia quelli individuali dove l’ansia è oramai diventata la compagna in ogni attività, che quelli di carattere sociale, i quali riguardano il deterioramento delle relazioni tra le persone, cioè l’impronta ontologica che lasciamo sul nostro pianeta.  Più che una vita “bella” nel senso della sua connessione con il bene, si tratta di una “esistenza assai fast”, un treno sempre in corsa, un acceleratore  schiacciato fino in fondo, ed interrompere questa routine dedicata alla rapidità non è per niente facile.

Magari un evento improvviso ed inaspettato può farlo, come di fatto è accaduto in conseguenza della pandemia, non a caso in quella occasione di rallentamento e di cessazione di parecchie attività, si è parlato di “tempo sospeso”, di una dilatazione della percezione del fluire della storia, di una vitalità necessariamente messa tra parentesi. Tuttavia affinché questo fenomeno possa accadere nella quotidianità occorre che ci sia la volontà di fermarsi, di prendere un po’ di respiro da opporre a quello che si potrebbe definire con un claim pubblicitario di qualche tempo fa, “il logorio della vita moderna”.  Certo in questa prospettiva gioca molto la concezione di tempo che si ha in Occidente, che è per così dire di tipo “lineare”, cioè di una risorsa finita che può essere utilizzata oppure sprecata, che ha soprattutto un valore economico non a caso “il tempo è denaro”, mentre in altre culture il kronos è immaginato come ciclico e si dipana peraltro con una certa lentezza.

Per stare nel perimetro di questi ragionamenti è certamente utile riprendere le indicazioni che diede il cardinale Carlo Maria Martini più di quarant’anni addietro, nella sua prima lettera pastorale come arcivescovo di Milano, dal titolo “La dimensione contemplativa della vita”, nella quale l’alto prelato chiedeva a tutte le persone e non soltanto alla comunità dei credenti meneghina, una metropoli del resto nota per la sua dinamicità, di potersi ritagliare degli spazi idonei per staccarsi dall’affanno e dal peso delle impellenze quotidiane, e di ritrovare così lo stato più profondo del vivere umano e cristiano. Era un invito a ritrovare sé stessi nel silenzio, nella contemplazione e nella preghiera, alla riflessione per cercare di cogliere il significato più autentico delle molteplici esperienze vissute, entrando in quella “modalità contemplativa dell’esistenza” che è in grado di stabilire un distacco dall’incalzare degli eventi, per non esserne alla fine soverchiati.  L’ansia nella vita non è una condanna inevitabile ad essa si può contrapporre una ricerca delle radici dell’essere umano, ed attingendo agli esiti di questa esplorazione si può anche guardare poi con maggiore serenità alle difficoltà della contemporaneità.  Peraltro l’atteggiamento interiore che porta ad una “preghiera silenziosa” è più comune di quanto possa a prima vista sembrare, poiché la gente invoca e riflette a volte inconsapevolmente, e non è quest’ultima una prerogativa dei soli cattolici ma una propensione in un certo senso “laica” che appartiene anche al “popolo dei non credenti”, della cui importanza il cardinale Martini comprese il rilievo istituendone una particolare “cattedra”, forse una delle intuizioni più significative del suo episcopato. 

Che cosa è la contemplazione se non la capacità di vivere il presente, la percezione “qui e ora” della propria soggettività nelle faccende in cui si è impegnati, insomma l’abilità di porre in essere una ritrovata consapevolezza di sé. C’è una locuzione latina che sintetizza efficacemente questo moto interiore “age quod agis”, cioè fai (bene) quello che stai facendo; metaforicamente si potrebbe interpretare questa frase come un’esortazione a “rendersi conto di ciò in cui si è occupati”, inoltre il presente è l’unico tempo che è in nostro possesso anche se istantaneo, e questo fatto è in stretta relazione a cosa sarà poi il futuro.

Sì certo è facile a dirsi, ma al contrario nella temperie attuale siamo costantemente spinti - per dirla con il linguaggio dell’informatica - verso il multitasking, cioè a fare più cose contemporaneamente; anzi questa skill è ritenuta una risorsa, una competenza da incentivare, un concetto quindi tanto ammirato e non l’arrendevolezza verso possibili “distrazioni”.  L’era delle comunicazioni digitali, la sempre più assidua frequentazione dell’ on-line, dei social network, di Internet ed affini ci induce verso un approccio “iterativo” in tutte le attività umane; tuttavia non si tratta di fare una battaglia di retroguardia contro i new media, semmai del fatto di usarli con una apertura benevola verso l’altro, dove si amplificano le possibilità di comunicazione; infatti “…La rete digitale…” – ha avuto modo di dire Papa Francesco – “…può essere un luogo ricco di umanità, non una rete di fili ma di persone….(1).  Resta l’altrettanto impellente necessità di fare “spazio nella nostra mente”, di collegare il cervello con lo spirito, l’homo faber con l’homo sapiens, in una parola di dare alla dimensione contemplativa la giusta ampiezza. Ci si può così accorgere - solo per fare qualche piccolo esempio - della ricchezza che  proviene dalle relazioni che abbiamo la fortuna di stabilire con chi incontriamo, della bontà di un cibo neanche tanto raffinato che non riusciamo ad apprezzare se lo trangugiamo, della originalità e bellezza di uno scorcio della città dove viviamo che non abbiamo mai considerato perché il nostro passo affrettato non ce l’ha consentito, ma anche del finalismo di quella vicenda che ci ha fatto particolarmente soffrire della quale avremmo fatto volentieri a meno. In definitiva del “senso” che ha ogni istante della nostra vita, anche di quelli apparentemente più banali o depositati in reconditi cassetti della memoria, e del limite invalicabile costituito dalla natura mortale dell’uomo.  Si può entrare in uno stato in un certo senso di “assenza attiva” nella contemplazione che permette di liberare la creatività spontanea della vita, che riesce ad intravedere in ogni evento che ci ha coinvolto, una caratteristica prima sconosciuta, in sostanza che predispone ad un cambiamento di mentalità.  Infatti lo scopo dei momenti di meditazione non è quello di creare “menti eccelse” ma quello di modificare lo sguardo sul mondo. La logica della civiltà dei consumi promuove invece una felicità fatua che è insita nel possedere tante e sempre nuove cose, e che trova l’ humus accrescitivo nel diffuso individualismo; la contemplazione può essere un antidoto che permette di non lasciarci distrarre da una bulimia di stimoli inutili, è la pratica che consente di ritrovare l’armonia e l’equilibrio innanzitutto con sé stessi e poi con il mondo.

            Per le ACLI è importante stare sempre al fianco dei lavoratori in attività mediante la pluralità dei servizi che l’associazione riesce a mettere in campo. É altresì  necessario curarne la formazione e la spiritualità, accompagnando la crescita anche della loro sfera contemplativa, poiché non vi è una netta separazione tra le due dimensioni, semmai si tratta di facce della stessa medaglia.  

 

 

Andrea Rinaldo, già Consigliere Provinciale ACLI di Como

 

 

1    https://www.rainews.it/archivio-rainews/articoli/Papa-Francesco-comunicazione-digitale-isolamento-cd8365a4-6466-49bf-b75a-3919b1b983c3.html