Orientamenti congressuali: lo strappo fra pensiero ed azione
Gennaio 2020
Le sempre più accentuate e multiformi disuguaglianze rappresentano lo sfondo sul quale si collocano più specifiche linee di frattura, che rappresentano altrettante prospettive sulle quali intendiamo concentrare la nostra attenzione.
In particolare, pensiamo che ci siano almeno quattro strappi da ricucire attraverso la riflessione e l’azione diretta. Si tratta di quattro grandi contraddizioni, quattro ambiti della vita sociale ed economica le cui logiche stridono con l’ecologia integrale, il paradigma che più di altri è in grado di fermare quella che nella “Laudato si” viene definita «la spirale di autodistruzione in cui stiamo sprofondando» (N. 163).
Strappo #01: Economia Vs. Ambiente
Abitiamo l’epoca nella quale le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche sono da attribuire all’essere umano e alla sua attività. Il cambiamento climatico, la distruzione della bio-diversità, l’inquinamento degli oceani, la desertificazione sono tutte questioni che dipendono da noi, dall’idea di economia che abbiamo assecondato senza avanzare alcuna critica. È impressionante scoprire che, da quando il cambiamento climatico indotto dall’uomo è stato ufficialmente riconosciuto, oltre la metà delle emissioni industriali globali è riconducibile a solo 25 entità aziendali o statali.
In Italia, abbiamo inoltre ceduto al ricatto peggiore, quello in cui l’ambiente e la salute delle persone vengono barattate per il lavoro: negli anni ’80 era la Eternit a Casale Monferrato, oggi è l’Ilva a Taranto. Per non parlare della sequenza di disastri ambientali che si sarebbe potuto evitare: Seveso, Giugliano, il Sacco, Bellolampo, il Polcevera sono cittadine, fiumi, laghi irrimediabilmente deturpati, diventati malsani e pericolosi per gli abitanti, quasi sempre con il concorso delle ecomafie e l’indifferenza dei controllori.
Non ci sono solo le industrie e la criminalità a inquinare ma anche i nostri comportamenti. La cosiddetta «impronta ecologica» misura il consumo di risorse naturali conseguente alla presenza dell’uomo: negli ultimi cinquant’anni, questo indicatore è cresciuto del 190%. Un cittadino italiano per compensare la sua presenza sul pianeta e il suo stile di vita avrebbe bisogno di un territorio con un’estensione di quattro volte l’Italia. In pratica stiamo vivendo sovra-sfruttando le capacità delle terra.
Nonostante questi pochi dati ammettano poche obiezioni non bisogna pensare che la soluzione implichi una decrescita e un ritorno a un passato pre-industriale: la tecnica e l’innovazione possono essere dei fattori di compensazione e riduzione del danno. L’economia verde è una delle eccellenze del nostro paese. La Relazione 2018 sulla green economy evidenzia che l’Italia è prima fra i grandi Paesi europei in economia circolare, agricoltura biologica ed anche eco-innovazione, ma ha ancora molto da fare sul consumo del suolo, la tutela della biodiversità e l’abbandono del carbone. Ovviamente, senza un radicale cambiamento dei nostri comportamenti individuali, neppure l’economia verde potrà molto di fronte al collasso ambientale.
I movimenti sociali che chiedono un’inversione di tendenza sul clima, lo sviluppo di un’opinione pubblica e di consumatori attenti alle implicazioni ambientali, la lenta ma progressiva convergenza delle politiche globali sono elementi che spingono a essere fiduciosi: il problema è che non c’è molto tempo per cui è necessario che tutti si impegnino per imprimere un cambio di velocità. Sappiamo bene che il nostro pianeta è uno solo, agiamo di conseguenza. Il tempo rimasto è poco per cui occorre fare massa critica e orientare il cambiamento con i comportamenti. Come singoli cittadini possiamo fare molto: il consumo critico, la sobrietà, il cosiddetto «voto con il portafoglio», il recupero e la redistribuzione delle eccedenze sono pratiche individuali che applicate su larga scala possono spingere le aziende a cambiare il proprio modo di fare. In altre parole, bisogna esercitare il nostro diritto di scelta, premiando le esperienze di economia civile che guardano all’ambiente naturale e alle comunità locali con attenzione e rispetto.
Il non profit, la cooperazione sociale e le organizzazioni di terzo settore, per quanto siano già impegnate sul fronte della tutela ambientale, possono e devono fare di più: al loro interno sono stati sviluppati modelli produttivi e organizzativi «verdi» che possono essere trasferiti anche in altri ambiti.
Strappo #02: Lavoro Vs. Sapere
Ogni lavoro è espressione di un sapere, anzi, come ricorda Richard Sennett, il sapere si esprime nel fare: c’è un rapporto strettissimo tra queste due dimensioni, un legame che stiamo perdendo. Da almeno venti anni sentiamo parlare di economia e lavoratori della conoscenza, come se ci fossero lavori che possono essere svolti senza alcun sapere.
La conseguenza principale della messa in questione del legame tra sapere e lavoro è che le occupazioni manuali, i mestieri, le professioni artigianali hanno iniziato a essere considerate inferiori rispetto alle occupazioni intellettuali. Siamo arrivati ad ammettere che alcuni lavori sono così semplici e banali da poter essere svolti senza una formazione o un qualche apprendistato iniziale. A pensarci bene questo ragionamento è alla base della gig economy: basta scaricare una app, rendersi disponibili e ricevere incarichi che chiunque può fare. L’autista, il fattorino, il magazziniere sono diventate occupazioni postlavoriste, forme di mera sopravvivenza economica, sganciate da qualsiasi idea di lavoro. Al di sotto di una ristretta fascia di occupazioni ad «alta intensità di conoscenza» c’è dunque un’ampia base di occupazioni svalutate e prive di riconoscimento sociale.
Ci sono poi tutta una serie di occupazioni percepite come non lavorative, benché implichino un’ovvia dose di sapere, conoscenze e competenze, una certa «maestria» direbbe sempre Sennett. Il lavoro sociale, culturale e artistico, così come le occupazioni nell’ambito dello sport sono considerati poco più che hobby o, come nel caso del lavoro di cura, incombenze naturali che spettano solo ad alcuni (le donne). Per cui si ammette che possano essere anche svolte in modo gratuito, senza alcun riconoscimento formale.
Il problema è che questi lavori – nonostante abbiano un’alta «produttività» sociale, culturale e relazionale – offrono bassi ritorni economici per cui finiscono per essere rubricati sotto la paradossale categoria di lavori improduttivi. Ma chi è a stabilire il valore di un lavoro? Il mercato, ovviamente. È il mercato a indicare quali occupazioni sono in e quali sono out, in tale valutazione non rientra il contributo dato alla coesione delle famiglie e delle comunità sociale: è singolare che nel dibattito su industria 4.0 nessuno abbia proposto di usare i vantaggi dell’automazione per dare riconoscimento sociale – quindi innanzitutto reddito – al lavoro non produttivo, ma socialmente rilevante.
La polarizzazione del mercato del lavoro ha conseguenze che hanno cambiato lo scenario occupazionale italiano: purtroppo anche nel nostro paese la fascia dei lavoratori poveri si amplia sempre di più, soprattutto nel Meridione: la questione dei minimi salariali è urgente poiché troppe persone lavorano per una «paga da fame». In Italia più di una famiglia su dieci può essere definita «a bassa intensità lavorativa», si tratta di nuclei che, possono considerarsi a forte rischio di esclusione sociale, in quanto al loro interno nessuno lavora o chi è occupato è impegnato in attività lavorative discontinue e poco intense. Ciò, nell’immediato, impatta oltre che sulle condizioni di vita delle persone (dei bambini in particolare), anche sulla fiscalità nazionale riducendo il gettito complessivo; mentre, in prospettiva, il sistema pensionistico potrebbe risentirne.
I giovani sono il gruppo sociale che soffre maggiormente le trasformazioni del lavoro: in pochi possono dirsi pienamente inseriti nel mercato del lavoro, gli altri o si trovano costretti ad accettare posizioni lavorative penalizzanti o addirittura restano fuori dal mercato formale, impigliati nella rete del lavoro nero o dell’inattività forzata, come ad esempio i Neet.
La visione centrata sul mercato ha, infine, fatto breccia anche nell’istruzione e nella formazione: bisogna produrre, far circolare e valorizzare il «capitale umano», incentivando i percorsi più redditizi premiando i più meritevoli. Purtroppo, anche per coloro che fanno scelte volte a garantirsi un buon livello di capitale umano da vendere sul mercato, il successo non è assicurato: la disoccupazione intellettuale e la sottooccupazione sono condizioni che interessano un numero sempre maggiore di persone, giovani e donne in particolare. Ciò avviene perché da troppo tempo abbiamo pensato di compensare i malfunzionamenti del mercato del lavoro solo con le politiche passive di sostegno al reddito (la cassaintegrazione, ad esempio) senza predisporre un sistema di politiche attive capace di far incontrare realmente domanda e offerta di lavoro. Un lavoro purchessia non basta, abbiamo bisogno di creare buon lavoro. Per far ciò è necessario che istruzione, formazione professionale e ricerca siano parte della stessa filiera: l’idraulico e l’analista finanziario; il falegname e l’ingegnere elettronico; il cameriere e il chimico farmaceutico sono lavori che hanno diversi contenuti di conoscenza, ma uguale dignità e importanza. Allo stesso modo, un ragazzo che si iscrive a un corso istruzione e formazione professionale non è uno studente di serie B. Abbiamo bisogno di una filiera formativa capace di valorizzare i «mestieri popolari», così come quelli ad alta intensità di conoscenza. Non dobbiamo dimenticare che le Acli hanno una lunga tradizione in questo campo: i nostri centri di formazione professionale, così come l’integrazione dei servizi attuata dal progetto Missione Lavoro, possono essere dei punti di riferimento per sperimentazioni più ampie e strutturali.
Strappo #03: Periferia Vs Comunità
Ci sono sempre più persone «fuori posto», che non sappiamo dove mettere e per le quali decidiamo che il confinamento al di fuori della nostra sfera di vita sia la soluzione migliore. Non ammettiamo la possibilità che le nostre comunità si possano costruire anche assieme a loro. Il trattamento riservato a migranti, rifugiati e sfollati è l’esempio più macroscopico di processi di esclusione e allontanamento che le società liberali attivano sempre più spesso. Dislocamenti fatti a tutela di una pòlis che applica una cittadinanza selettiva, di volta in volta, basata su criteri di reddito, affinità culturale e religiosa, presunta pericolosità sociale.
La mobilità umana è un fenomeno globale che non interessa solo la fortezza Europa: attualmente nel mondo ci sono più di 70 milioni di migranti, più di un terzo dei quali è un rifugiato, ossia è fuggito da una situazione nella quale era a rischio la propria incolumità personale. Di fronte a queste cifre la chiusura, il rifiuto, l’indifferenza sono reazioni puerili.
Le migrazioni sono la grande questione del nostro tempo e l’Italia non sembra averlo capito. La rotta mediterranea è solo una delle tante che insistono sul nostro Paese: si sono chiusi i porti e si sono lasciate morire centinaia di persone nel mediterraneo solo per propaganda; mentre lungo la rotta balcanica continuano ad arrivare persone delle quali nemmeno ci accorgiamo. A questa umanità in movimento – che senza remore consideriamo in eccesso – si aggiungono persone che affermiamo di dover proteggere, ma con le quali non siamo in grado di (o non vogliamo) concordare un posto nella comunità: poveri, marginali, ex carcerati, rom, persone con disabilità fisiche o psichiatriche sono solo formalmente parte della comunità, perché anche per loro è più semplice trovare una collocazione al di fuori delle mura. L’ostracismo nei confronti dei non conformi è la controparte di un’idea di cittadinanza omogenea e omologata. È questa la «cultura dello scarto» alla quale fa riferimento Papa Francesco. I migranti, i rifugiati, gli sfollati e le vittime della tratta sono l’emblema dell’esclusione: oltre al disagio che la loro condizione comporta, sono considerati la causa dei mali sociali. Il posto giusto per tutti costoro sono i margini della città, gli interstizi socioeconomici, le fenditure tra uno spazio recintato e l’altro dove condurre una vita parallela, distante dai nostri occhi, lontana dai nostri cuori.
Periferie sono tutte quelle zone nelle quali sono innanzitutto le esistenze a essere periferiche, rimosse e bandite dal consesso sociale. Luoghi dove convivono «i reietti della città», ma anche tutti coloro che reclamano i propri diritti sociali. Il sistema economico-finanziario adotta una vasta gamma di «procedure d’espulsione», alcune più manifeste, altre meno evidenti: il tratto comune è l’utilitarismo. Chi non è produttivo diventa un peso del quale nessuno vuole farsi carico. Anziani, malati, disoccupati, persone sole senza una rete di supporto corrono il rischio di essere esclusi. Si tratta di una china pericolosa, lungo la quale ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa un peso.
Forse non ci siamo accorti che è lo schema centro-periferia a produrre disuguaglianze. E’ tempo di pensare città policentriche, in cui governare diventa sinonimo di animare, motivare, indirizzare, più che dirigere. Per porre un argine a questa pericolosa deriva c’è bisogno della mobilitazione delle comunità, di una reazione della società che parta «dal basso», rinneghi l’utilitarismo cieco e ribadisca con forza i valori della solidarietà. Una comunità che però non sia esclusiva, rinchiusa in se stessa a guardia delle mura (quante violenze e ingiustizie sono perpetrate in nome della comunità?).
Animare le comunità un tempo era più semplice: bastava che don Camillo e Peppone fossero d’accordo. Oggi è molto più complesso. Perché le parti in causa non sono nettamente definite e le leadership interne non sono forti. Serve lavorare in tanti: pubblico, privato, Terzo settore, chiesa. Nelle nostre comunità stiamo già dando dei segnali: i nostri animatori, i soci, i volontari animano una fitta rete di spazi sociali (circoli, segretariati, semplici luoghi di aggregazione) che prestano ascolto e tentano di rispondere alle domande sociali degli esclusi.
Strappo #04: Politica Vs. Democrazia
Tutti gli studi e le ricerche degli ultimi anni concordano nell’affermare che gli Italiani sono sempre più distanti dalla politica: non nutrono fiducia nelle istituzioni e, specialmente, in quelle politiche, si allontanano dai partiti, dalle associazioni e organizzazioni di interesse, non apprezzano i politici e gli uomini delle istituzioni della democrazia rappresentativa. Una lieve ma sensibile inversione di tendenza si è prodotta con l’avvento al governo dei partiti populisti, cioè di quelle formazioni che sono state capaci di intercettare e rappresentare l’insoddisfazione verso l’andamento della democrazia e il funzionamento dei partiti.
Questi orientamenti risentono anche di un clima internazionale che sembra dominato da spinte alla chiusura e al separatismo: dalla politica di Trump alla scelta della Brexit, anche fuori dai nostri confini si assiste ad un’avanzata delle destre e al diffondersi di un neo-nazionalismo che rischiano di travolgere la struttura istituzionale in nome della malintesa aspirazione ad una maggiore efficienza del sistema democratico e della ricerca di consenso popolare. La riduzione del numero dei Parlamentari in Italia va letta anche in questa chiave ideologica. Tuttavia, ciò porta con sé un’illusione: che la democrazia possa funzionare senza i partiti, identificati con quanto di più deteriore, e, quasi, senza un Parlamento; che, in definitiva, possa fare a meno della politica, in nome di una democrazia diretta che salta ogni tipo di mediazione. Quest’ultima viene in alcuni casi surrogata dai canali offerti da una ormai pervasiva tecnologia, declassando l’attività politica e la partecipazione attiva al mero accesso a piattaforme e blog su Internet o ai commenti sui social network.
Fortunatamente resta diffusa tra i cittadini la convinzione che la democrazia sia preferibile a qualsiasi altra forma di governo, sebbene le sue istituzioni sollevino critiche. Ma a tal proposito non ci si può non chiedere: si può avere democrazia senza la dialettica tra i partiti, in quanto entità che organizzano e confrontano le istanze di parte? È possibile immaginare un sistema in cui non ci siano luoghi deputati, cui riconoscere una centralità, in funzione del ruolo ad essi assegnato di fare sintesi in vista dell’interesse generale?
Quello che le Acli colgono nel Paese, attraverso il loro radicamento e la loro natura popolare, sono le tante aspettative nei confronti della politica, legate al clima di incertezza che i nostri concittadini avvertono rispetto al proprio futuro. La risposta non può, dunque, consistere nell’alimentare l’antipolitica, ma nel cambiare il modo di fare politica, da un lato interpretando la forte domanda di rinnovamento delle sue forme e dei suoi attori, poiché «tutto ciò che non si rigenera, degenera», sostiene Edgar Morin. Disposti a pensare il mondo dal punto di vista della sua trasformazione, coinvolti nel cambiamento per orientarlo verso il bene comune. Dall’altro lato, “praticando” la politica come quell’arte e quella forma alta di servizio, di cui Paolo VI ha parlato. Perché anche la politica e la democrazia si leggono alla luce della giustizia sociale, nell’ottica per la quale politica significa dire al prossimo che non è solo.
Dare un nuovo senso alla parola politica appare – oggi – impresa ardua, quasi titanica; eppure, è l’unica azione che vale la pena di perseguire. Il punto di partenza non può che essere l’Europa, la nostra casa comune, con il suo modello sociale che in molti pensano superato è inadeguato alle sfide odierne, ma che tuttavia rappresenta l’unica possibilità di ricomporre uno spazio politico sempre più dominato dai nazionalismi nativisti e dai neofascismi più o meno mascherati.
Se in Europa la sfida è di portata storica, a livello locale la prova che ci aspetta consiste nel sostenere amministratori locali e animatori politici, capaci di interpretare una politica che parte dal basso, e promuovere laboratori di azione politica quali spazi pubblici che amplino il repertorio degli strumenti di conoscenza e di iniziativa. Una politica legata alle comunità e verso di esse responsabile, che mobiliti energie intorno a progetti concreti, perché la politica deve – per dirla con Magatti – «tornare a parlare di persone e attivarsi per creare legami, curare territori».
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