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Pensieri e riflessioni all'epoca del coronavirus

Aprile 2020

L’emergenza sta mettendo a nudo le fragilità personali e collettive, sociali ed economiche, politiche ed istituzionali.

In questi giorni di forzata clausura mi è ritornata alla mente la frase più famosa del racconto “Il Piccolo Principe” di Antoine Sant’Exupery: è il nostro cuore, molto più dei nostri occhi, lo strumento che ci è utile per osservare e per comprendere la realtà, gli altri e tutto il mondo che ci circonda.

Siamo vivendo giorni che ricorderemo a lungo, per il silenzio che ci circonda, per le piazze deserte, per l’impossibilità dei rapporti parentali ed amicali cui siamo abituati, per il lavoro da casa, il lavoro agile e, purtroppo, per i bollettini giornalieri sul numero delle persone guarite, contagiate o decedute. Qualcuno, anche dai banchi del Parlamento, ha richiamato scenari di guerra: certamente in guerra da ormai un mese sono i medici, gli infermieri, gli operatori del Servizio Sanitario Nazionale, specialmente nelle regioni del Nord ed in particolare della Lombardia.

Di fronte alla fragilità personale e collettiva il tema è quello della malattia, della vita e della morte, che tocca e ridefinisce ogni cosa. Di fronte ad un nemico invisibile ed impalpabile, che assume il volto possibile di ogni persona che incontriamo, di ogni relazione e di ogni rapporto, ci sentiamo improvvisamente indifesi, esposti e smarriti. È una fragilità che mette fuori gioco molte delle relazioni interpersonali e sociali. Una sospensione sine die del proprio modo di essere. Ma quando la minaccia è percepita e sperimentata come generalizzata allora non si può nascondere la morte. Per noi cristiani il tema del tempo e quindi della morte è legato al tema della Risurrezione, il tema dell’annuncio del Vangelo in questi giorni di Quaresima, il nucleo centrale della nostra fede. Siamo entrati in una lunga vigilia, una veglia notturna: è il Sabato Santo della fede, un tempo denso di sofferenza, di smarrimento ma anche di attesa e di speranza, che sta tra il dolore della Croce e la gioia della Pasqua.

Dal punto di vista della fragilità sociale sta tornando di moda il termine comunità: communitas viene da cui e munus , un’aggregazione di persone che condividono un vincolo reciproco. Munus è prestazione dovuta, un impegno assunto verso qualcuno. Nella comunità democratica, l’impegno è promesso e assunto verso tutti gli appartenenti. È questo nella nostra democrazia costituzionale il senso profondo del vincolo comunitario: rispettare i doveri, specie quelli inderogabili di solidarietà. Con il virus pandemico la natura si insinua nella comunità e la colpisce nel vincolo costitutivo, il legame, lo scambio vitale tra le persone. Ma la comunità può contrapporre una risorsa che è la stessa su cui essa si fonda: la costruzione ed il rispetto di una regola, pensata per l’occasione. Restare a casa è la regola: restiamo a casa ma teniamoci in contatto e confermiamoci come comunità. Ossia: lavoriamo da casa, contribuiamo alla vita comune ciascuno dalla propria postazione. Questa crisi, pur nella sua drammaticità, ci dovrà portare a forme diverse di legami, di solidarietà ad una maggiore fiducia nello Stato e nelle sue istituzioni.

Dal punto di vista della fragilità economica si ha oggi l’impressione che l’impatto del virus sarà di portata devastante. Il danno economico andrà ad aggiungersi a quello della crisi che già era in atto prima di febbraio soprattutto perché ha colpito le tre regioni che insieme fanno il 40% del Pil italiano. Non basteranno gli interventi già approvati di sostegno al reddito dei lavoratori ma occorreranno iniezioni di liquidità alle imprese, sostegno all’esportazione, maggiori investimenti pubblici, ma soprattutto innovazione e nuove strategie industriali che facciano perno sulle produzioni strategiche. Tuttavia, l’emergenza sta spingendo alla più grande sperimentazione di smart working mai attuata nel nostro Paese. In questa circostanza tutti si ritrovano a riorganizzare tempi e spazi di lavoro che nella trasformazione tecnologica in atto non sono più rigidi. Ci siamo preoccupati sempre di quanti lavori la rivoluzione digitale porterà via e non ci fermiamo ad osservare come la tecnologia non cambierà solo i numeri ma anche la natura stessa del lavoro. Daniel Susskind, docente di economia presso il Balliol College di Oxford, da anni studia l’impatto delle tecnologie sull’occupazione e dice: “Il lavoro non è solo uno stipendio. Nelle nostre società, il lavoro è un obiettivo di vita poiché normalmente usiamo gran parte del nostro tempo lavorando. Per cui la prospettiva di perdere quel centro significa insicurezza ed ansia su più livelli. C’è una barriera nell’accettare l’isolamento e le soluzioni del lavoro da casa, al posto della condivisone di un ufficio, o di un posto dove possiamo sederci e discutere con gli altri. Questa barriera è una forma di resistenza culturale e sociale. Non è solo la paura di perdere il proprio reddito. È la paura di perdere la propria identità.” La sfida che ci aspetta è quella di aiutare le persone a sviluppare le capacità e le competenze che le permetteranno di navigare in questo cambiamento.

Sfruttiamo questa occasione per essere migliori, è l’occasione per capire che il diverso vive accanto a noi e ha le nostre stesse paure e corre i nostri stessi rischi. Per dedicarsi a costruire e arricchire legami che ci rendono persone. Per recuperare il senso del limite, della nostra vulnerabilità come un valore. E con essa la capacità di contare sulle nostre forze, che sono enormi soprattutto se impariamo a cooperare, a guardare ai problemi dell’altro come ai nostri.

Franco Fragolino, consigliere provinciale ACLI COMO