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Una scommessa per uscire dalla crisi e ri-costruire l'Italia

Marzo 2021

La decisione del Presidente Mattarella di dare l’incarico a Mario Draghi per un “Governo istituzionale” è un segnale della gravità della nostra situazione sanitaria ed economica e, anche, dell’incapacità degli attuali partiti di farsene carico.

Non c’è alcun dubbio che l’incarico a Draghi sia la migliore scelta possibile, per le sue competenze, il prestigio di cui gode nel mondo intero, la sua esperienza, la sua rettitudine. Ed anche significativo che la soluzione della crisi sia nelle mani di due cristiani, profondamente laici; uno in rappresentanza del cattolicesimo popolare, il secondo di un cattolicesimo di stampo più liberale. A dimostrazione che gli estremismi sovranisti e populisti sono ricette inutili di fronte ad un virus che richiede soprattutto condivisione e solidarietà.

“Uscire dalla pandemia non sarà come riaccendere la luce”: è una delle frasi centrali dette da Draghi al Senato.

Il mondo del lavoro non sarà identico a quello che, almeno in Italia, abbiamo avuto negli ultimi 30 anni; 30 anni di crescita troppo lenta e con troppe disuguaglianze. Servirà dare una regolata alle rendite, quelle finanziare e urbane che hanno arricchito solo alcuni e quelle burocratiche o monopolistiche che hanno frenato l’innovazione e la crescita.

I problemi non sono infatti solo quelli dell’uscita dall’epidemia: vanno finalmente affrontati i nodi dell’inefficienza del nostro paese: una amministrazione pubblica burocratica e, come ha ancora detto Draghi “in fuga dalla firma”, arroccata dietro i bizantinismi, frutto di un eccesso legislativo. Ma anche una giustizia senza tempi certi, che premia i ricchi e colpisce i meno tutelati. E, non ultima, una arretratezza cronica nelle conoscenze, nella formazione, nelle tecnologie.

Si riuscirà a risolvere tutto e fare, finalmente, passi in avanti? Privilegiando, ma sul serio, coloro che hanno pagato maggiormente questa crisi, e cioè i giovani e le donne?

La certezza non c’è, ma non ci sono alternative. E molto dipenderà anche dai partiti e dalle loro scelte. In queste prime settimane è ancora evidente la loro arretratezza: le conversioni improvvise e senza fondamento vero, gli errori strategici, le frantumazioni e divisioni, dimostrano che non si sono ancora resi conto che serve un cambio di passo reale.

Continuano ad affannarsi sulle rivendicazioni quotidiane, ancora sul “prima io”, senza rendersi conto che ora “si deve costruire il futuro” e quindi serve un “noi, insieme” non un “prima i comaschi”.

E’ un problema di uomini, alcuni oggettivamente impresentabili in Europa; persone che, ancor oggi, mantengono legami con le espressioni più pericolose e divisive dell’estrema destra reazionaria europea. Altri allo sbando, come il gruppo dirigente del M5S. Ma il problema più complicato non sono gli uomini ma è quello delle culture politiche: sono finite ormai da almeno trent’anni quelle che avevano dominato il secolo scorso, tutto il Novecento. E non sono state sostituite da altre. Guardiamo le novità degli ultimi trent’anni: prima il berlusconismo, cioè la cultura della libertà come il “faccio quello che mi pare” e ciò che è importante sono soldi, immagine, successo. Poi il leghismo, con la sua cultura del rancore delle periferie, delle piccole patrie, dell’etnocentrismo e del razzismo contro i “diversi”: prima i meridionali, poi i migranti (a Como anche i senzatetto). Poi è giunta anche la marea dei “vaffa”, un insieme arruffato di tutto e del contrario di tutto: da quelli dei no (no-vax, no-tav, no-uomo sulla luna), a quelli della casta (e dell’onesta!), ad un certo tipo di ambientalismo identitario.

Culture tutte di un certo tipo: nate più “contro” altri che “per” costruire qualcosa. Culture di opposizione ad un nemico, identificato in uno stereotipo: i “comunisti” per Berlusconi, “Roma ladrona” per la Lega, la “casta” per i cinquestelle.

Ed anche il centro sinistra è caduto, prima ed ora, in questa trappola: prima contro Berlusconi, poi, fino a ieri contro Salvini. Ci sono stati due tentativi veri di costruire qualcosa di nuovo. Il primo, quello dell’Ulivo, sappiamo come è finito: con il richiamo all’ordine di quello che restava dei partiti storici.

Il secondo, quello del PD, è ancora in corso ma sopravvive: è stato capace di mantenere una competenza “amministrativa”, nelle istituzioni locali, ma è irrisolta la sua cultura politica. E qui veniamo a noi, all’esperienza del cattolicesimo democratico e di quello sociale. Parliamo prima degli altri, della sinistra, non solo quella del partito, ma anche quella sindacale e della società civile. Possiamo dire che, dal 1989, dalla caduta dei comunismi dell’Est Europa, è andata alla ricerca di nuove strade, ma più per innamoramento che per riflessione profonda. Ondeggiando tra illusioni liberali, infatuazioni per esperienze estere (Clinton, Blair) e ritorni alle sicurezze del passato (che, in realtà, non ci sono più); ad esempio, su chi sono gli ultimi nella società della globalizzazione.

Grande rispetto per questa difficile situazione della sinistra nel nostro paese, per quella storica ed anche per quella più radicale, ma forse per noi è prioritario una riflessione sullo stato dei cristiani nelle istituzioni e nella politica. Su ciò che resta della cultura del cattolicesimo democratico e di quello sociale. Noi non abbiamo il problema di liberarci di pezzi di cultura del Novecento: lo abbiamo già fatto nei decenni scorsi. Dovremmo, in oggi caso, aver mantenuto i “valori”, che sono quelli del Vangelo. Ed abbiamo un grande vantaggio rispetto agli altri: non siamo soli ed abbiamo ancora maestri veri con noi. Abbiamo Francesco, la “Laudato sii” e “Fratelli tutti”. In questa crisi profonda il nostro non può essere che un tempo di testimonianza, per lavorare per quel futuro che Francesco ci indica. Ed è un compito dei laici cristiani, non solo nella società, ma anche nella Chiesa. In una Chiesa italiana che, come ha detto Papa Francesco, “ha bisogno di nuovi Sinodi”, perché diventi effettivamente una Chiesa aperta al mondo di oggi, alle sue preoccupazioni ed alle sue speranze. Perché, anche se questi tempi ci sembrano una fine, ci può sempre essere un nuovo inizio. 

 

Giuseppe Livio, già presidente provinciale ACLI COMO