Home » Laboratorio Sociale » Dove va a parare il "decreto ONG"

Dove va a parare il "decreto ONG"

Febbraio 2023

Lo scorso 3 gennaio è entrato in vigore il decreto “Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori” più noto come “decreto ONG”, perché riguarda in particolare l’operato delle Organizzazioni non governative.

Le principali disposizioni presenti nel decreto riguardano:

  • l’obbligo di raggiungere «senza ritardi» il porto assegnato, che va chiesto nell’immediatezza del primo intervento;
  • i requisiti di idoneità tecnico-nautica;
  • l’obbligo di raggiungere porti più lontani;
  • l’imposizione di informare le persone tratte in salvo «della possibilità di richiedere la protezione internazionale», raccogliendo «i dati rilevanti».

In caso di violazioni di queste norme sono previste multe fino a 50mila euro, il sequestro dei mezzi, fino alla loro confisca.

Le ONG sono quelle organizzazioni che, con le loro navi umanitarie, salvano le persone in mare che cercano di raggiungere le coste del nostro continente.  Nel 2022 hanno soccorso l’11,2% delle circa centomila persone approdate sulle coste italiane. Gli altri o arrivano con i propri mezzi, oppure sono soccorsi da altre navi, con la Guardia Costiera e la Marina Militare in prima fila, sebbene costrette a operare in silenzio.

Dai primi giorni del suo insediamento, il governo Meloni ha ripreso la campagna contro le Ong, fino al punto da provocare una crisi dei rapporti con la Francia, ciò in continuazione con il “Codice di condotta”, introdotto dai precedenti governi, per ostacolare le attività di salvataggio.

Andando a leggere in profondità queste nuove norme si può ben dire che si sta cercando di fare una “guerra” alle ONG, limitandone l’attività, allontanandole se possibile dalle acque territoriali, rendendo più costosi e complicati i salvataggi, scantonando dall’obbligo di offrire approdo ai naufraghi e asilo ai profughi e cercando di scaricarne l’onere sugli Stati di cui le navi inalberano la bandiera.

Nel dettaglio:

  • l’obbligo di raggiungere “senza ritardi” il porto assegnato fa pensare che se il comandante ricevesse un’altra richiesta di soccorso dovrebbe ignorarla, lasciando affondare le persone, per non procrastinare lo sbarco o deviare, dalla rotta assegnata.
  • I requisiti di idoneità tecnico-nautica innescano un paradosso analogo: se un salvataggio dovesse comportare il superamento del numero consentito di passeggeri, il comandante dovrebbe abbandonare qualcuno al suo destino?
  • l’obbligo di raggiungere porti più lontani, anche se ammantato dalla (debole) motivazione di alleggerire i porti di approdo più prossimi serve ad aggravare i costi.
  • l’imposizione di informare le persone tratte in salvo “della possibilità di richiedere la protezione internazionale”, raccogliendo “i dati rilevanti” lascia trasparire l’obiettivo di devolverne la responsabilità agli Stati di bandiera delle navi. Ciò non solo provocherà tensioni con i Paesi amici (che accolgono, va sempre ricordato, più rifugiati di noi), ma solleverà seri dubbi di legittimità e praticabilità: le richieste di asilo secondo le norme vanno sottoposte alle autorità di Stato, che hanno titolo fra l’altro per verificare l’identità, la provenienza, l’autenticità dei documenti di chi le presenta. Non sembra sostenibile che dei soggetti privati, nella concitazione dei salvataggi e della prima assistenza in mare, possano farsene carico.

 

Come minimo, il governo comunica una visione dei salvataggi in mare come un’attività dannosa, da circoscrivere, scrutare, penalizzare, con la minaccia di gravi sanzioni pecuniarie, tutto ciò seguendo l’esempio di quei governi, come l’Ungheria di Orban, in cui la democrazia sta progressivamente arretrando. Si stanno colpendo le ONG, ma in realtà si cerca di colpire tutte quelle persone che stanno cercando una salvezza al di qua del mare. L’Italia e l’Europa cercano di tenerle lontane, con le guardie costiere e finanziando quegli Stati ai confini dell’Europa che li ospitano al nostro posto anche rinchiudendoli nei lager, parola dell’ONU, come succede in Libia.

Roberto Caspani, presidente coordinamento comasco per la pace