Ius sanguinis, ius soli, ius scholae...ecco che se ne riparla
settembre 2024
Dopo la fine delle Olimpiadi di Parigi, come le precedenti di Tokyo, con la vittoria di atleti stranieri in molte competizioni, è riapparsa la discussione politica e pubblica sul tema di come in Italia viene concessa la cittadinanza riaccendendone il dibattito.
Tante sono state in passato le presentazioni di proposte di legge per modificare i contenuti di legge per i meccanismi di accesso, ma sono stati tutti tentativi naufragati.
Siamo convinti che i tempi siano ora maturi per riprendere il dibattito in aula, consapevoli che occorre ridurre il ritardo culturale e politico sempre alimentato da un’immagine sbagliata e fuorviante dell’immigrazione tout court.
Da anni le Acli si battono per ribadire la richiesta di adottare il principio dello IUS SOLI perché ritengono che quello della cittadinanza sia un diritto, non una concessione; riconoscere a bambini italiani di fatto la cittadinanza, significherebbe farli crescere con la consapevolezza di integrazione che andrebbe a contrastare il senso di esclusione che invece molti vivono.
Non avere la cittadinanza significa perdere opportunità importanti che contribuirebbero alla crescita del paese con la formazione e l’integrazione dei giovani.
Pur riconoscendo che in Europa non esiste nessuno stato con lo IUS SOLI, ma con IUS SOLI TEMPERATO, l’Italia rimane uno dei paesi con i requisiti più severi per la concessione della cittadinanza.
Attualmente in Italia è applicata la IUS SANGUINIS che resta una legge (del 1992) non adeguata e carente, con procedure lunghe e faticose, che prevede tre modalità per l’acquisizione della cittadinanza: per naturalizzazione (alla maggiore età e dopo 10 anni di residenza legale e ininterrotta), per matrimonio (con una persona che abbia già la cittadinanza e dopo la residenza di due anni) e per nascita (chi è nato da padre o madre che siano già cittadini italiani).
IUS SOLI è invece legato non “al sangue”, ma al territorio in cui si nasce, con l’ottenimento automatico della cittadinanza, indipendentemente da quella dei genitori. E’ il modello usato negli Stati Uniti. Questa ipotesi resta ormai accantonata perché ancora troppo lontana, dove la chiusura della maggioranza di governo è netta.
Emerge invece nel dibattito politico come la soluzione più condivisibile e collaborativa, quella dello IUS SCHOLAE che prevede che diventi cittadino italiano il minore straniero nato in Italia o arrivato entro i 12 anni di età che abbia completato almeno cinque anni di scuola in Italia in uno o più cicli scolastici. Senz’altro una norma di civiltà e di buon senso.
Per buttare un occhio sui dati relativi ai percorsi scolastici, guardando il rapporto del Ministero dell’Istruzione, possiamo rilevare dati sugli studenti che frequentano le scuole italiane e non hanno la cittadinanza.
Nell’anno scolastico 22-23, con un incremento di quasi il 5% rispetto all’anno precedente, erano 914.860 gli studenti stranieri presenti nelle scuole nazionali, pari al 11,2 %.
Sono circa 200 i paesi di origine degli studenti senza cittadinanza italiana; il 44,2% è di origine europea, il 27,5 di origine africana, il 20,7% asiatica. Gli studenti di origine rumena, albanese, marocchina, rappresentano oltre il 40% degli alunni con cittadinanza italiana.
Un altro dato interessante è quello degli studenti stranieri che però sono nati in Italia.
Nel quinquennio 2018/19 – 2022/23, il numero degli studenti con cittadinanza non italiana ma nati in Italia, è passato da oltre 553.000 a quasi 599.000.
Il 65,4% degli studenti stranieri quindi è nato in Italia e non ha la cittadinanza.
Non riconoscere la cittadinanza a questi ragazzi, rischia di limitare il loro senso di appartenenza al territorio, alla comunità e limitare il desiderio di partecipazione alla vita sociale. Il riconoscimento invece, ne promuoverebbe l’integrazione e aprirebbe ad un senso di appartenenza e partecipazione teso ad una cittadinanza globale.
Il dibattito politico odierno ancora una volta ci fa capire che non possiamo affrontare una delle principali sfide del nostro futuro rimanendo rigidamente incollati al passato. Un passo avanti va fatto.
Insomma, in un clima sempre più complesso, lo IUS SCHOLAE, pur non essendo esaustivo rispetto a quanto sempre auspicato, rappresenterebbe certamente e comunque un primo passo verso una vera e propria riforma della legge 91 del 1992, nonché un banco di prova decisivo per la stabilità della maggioranza di governo e per le future alleanze politiche.
Trovare un giusto equilibrio tra diritti, integrazione e coesione sociale, sarà la sfida principale per il Parlamento nei prossimi mesi.
Serena Frangi, Segreteria organizzativa Acli Como
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