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L’Unione Europea e il dovere di fare la differenza

Giugno 2025

Offriamo ai lettori di Laboratorio Sociale la relazione di Chiara Tintori, politologa e saggista, docente in ALTIS Università Cattolica di Milano, intervenuta al convegno promosso da ACLI COMO insieme a CDAL ed altre associazioni lo scorso 15 maggio 2025 sul tema: “Unione Europea tra fine e nuovo inizio?”. Il suo intervento ha seguito tre passaggi: 1. Unione Europea; 2. Il dovere; 3. Fare la differenza

1.Unione Europea

Unione è una parola sovversiva, oggi! Il contrario di unione è disgregazione, discordia. Noi viviamo in un mondo politico (ma non solo) dove prevale la disgregazione. Il disordine mondiale regna sovrano, è l'individualismo (chi fa da sé fa per tre) ad avere la meglio.

Che cosa ci tiene uniti oggi? Gli interessi? (come i soci), i nemici comuni? Con chi sentiamo uniti? Che cos'è oggi l'UE? Non è un'organizzazione qualunque, ma è un'istituzione. È un'incompiuta? Certo, lo sapevamo sin dall'inizio. Infatti, nella dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 si legge: "L'Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”.

L'UE e la solidarietà sono sinonimi. La solidarietà è il modo in cui l’UE ha scelto di stare insieme, per questo è nata!

La solidarietà non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane (se lontane è più facile essere solidali). “È la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siano veramente responsabili di tutti” (Sollecitudo Rei Socialis, n. 38). La solidarietà è una parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni.

La solidarietà è il fondamento della concordia sociale. È la strada che porta alla pace (se oggi il mondo ha così bisogno di pace, è forse perché ha dimenticato la strada della solidarietà?)

La solidarietà è una di quelle parole cadute in disgrazia, che non si può dire, che viene derisa, che è stata svuotata di senso nel contesto culturale e politico attuale. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, della disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la negazione dei diritti sociali e lavorativi (cfr Fratelli tutti).

Laddove non vi è solidarietà non stiamo costruendo l'Unione Europea, ma stiamo facendo qualcos’altro.

L’Unione Europea non è un impero. Siamo l'alternativa agli imperi, a quell’idea di politica neocoloniale incarnata dai Trump, Putin o Netanyahu di turno. In questo tempo della storia abbiamo l’occasione per riscoprire la straordinaria unicità dell'Unione Europea.

Le diversità linguistica, culturale, sociale costituiscono una mappa frantumata, talvolta persino assurdamente divisiva dello spirito europeo e della sua eredità, ma che si rivela inesauribilmente feconda. Il nuovo è contenuto nel vecchio e fragile mosaico europeo.

Pluralità non è sinonimo di disordine, conflitto, anarchia. Lo diventa se si considerano i cittadini europei un’ammucchiata di persone suddite. Lo diventa se si dimentica la solidarietà.

Motto dell’UE: “Unita nella diversità”, utilizzato per la prima volta nel 2000, sta ad indicare come, attraverso l'UE siamo riusciti a operare insieme a favore della pace e della prosperità, mantenendo al tempo stesso la ricchezza delle diverse culture, tradizioni e lingue del continente (24 lingue ufficiali). O ci facciamo la guerra o proviamo a vivere uniti rispettandoci diversi. Non vi sono alternative! Nessuno ci chiede di rinunciare alle nostre peculiarità e diversità in quanto italiani. Noi cittadini

 

dobbiamo chiedere alla politica europea di fare tutti gli sforzi possibili per rendere le diversità tra di loro compatibili: il suo compito è quello di comporre le diversità.

UE è il tentativo ostinato di cercare le cose che uniscono e non quelle che dividono. (Valorizzare le differenze è esattamente il contrario di quello che fanno i nazionalismi, che si costituiscono attraverso processi di omologazione e discriminazione delle minoranze).

Stare nell’UE vuol dire abitare l'incompiuta, stare nei processi, senza sottolineare sempre e solo quello che manca, ma valorizzando il positivo e scorgendo il potenziale generativo di una storia ancora tutta da scrivere. Con più fiducia e meno pigrizia.

2.Dovere

È una parola sconveniente almeno quanto “unione” e “solidarietà”.

Dovere va a braccetto con diritto, l’una senza l’altra ci rende zoppi. C’è una democrazia dei doveri assieme e prima quella dei diritti. Dovere implica tendere al bene comune e non solo all’interesse nazionale, perché questo è per pochi e lascia per strada molti. L’interesse nazionale è un eufemismo, perché dietro si cela l’interesse della piccola cerchia di privilegiati. A livello europeo, la mera somma degli interessi dei singoli Paesi non fa che esasperare i problemi, allontanando soluzioni che rendano il nostro continente un luogo migliore.

Che legame esiste tra diritti e doveri? I primi sono esigibili solo a patto di rispettare i secondi ed entrambi consentono il rispetto della dignità di ogni essere umano.

Sicuramente i diritti e i doveri sono due facce della stessa medaglia. Che cosa li tiene insieme? Occorre vigilare su due atteggiamenti sociali molto diffusi: a) lo “spezzatino”: quando non riesco più a guardare l'altro al mio fianco come pari a me in umanità (fratello, sorella, amico), nella sua interezza di persona umana, ma come un migrante, un disoccupato, un povero, un minore deviato…quando le etichette esaltano qualità e condizioni oggettive, privandoci dello sguardo di insieme; b) l'orgoglio legato alle appartenenze di sangue e di suolo. I campanilismi ci sono sempre stati. L’orgoglio nazionalista divide le masse in noi e loro, mentre la dignità riguarda un noi che non esclude nessuno. L'orgoglio di un'appartenenza esclusiva fa prevalere la congiunzione "o" (italiani o stranieri, giovani o anziani, donne o uomini, lavoratori autonomi o dipendenti…); il rispetto della dignità della persona umana fa prevalere la congiunzione "e".

3.Fare la differenza

È l’Unione Europea a dover fare la differenza, certamente: facendo funzionare meglio le proprie istituzioni, migliorando sistemi e regole già esistenti affinché l’Europa dei popoli possa animare quella dei governi, perseguendo riforme strutturali sul versante fiscale ed economico, istituendo una vera difesa comune.

Ma la differenza dobbiamo farla anche noi, cambiando radicalmente il nostro modo di pensare e di agire. Come? In maniera solidale e corresponsabile, a partire dalle periferie geografiche ed esistenziali della nostra casa comune. È tempo di fare la differenza, di sporcarsi le mani, immischiarsi, prendere parte, senza ricercare e delegare a leader forti, ma facendo ciascuno la propria parte, piccola o grande che sia, lì dove si trova e nelle condizioni in cui si trova. Dove possiamo fare la differenza?

  • Riscoprendo il senso della cittadinanza europea. Fatta l’Europa bisogna fare gli europei. Abbiamo bisogno di far evolvere la narrazione europeista, perché si eviti la propaganda, perché parta dalla realtà e non dall’idea, dai fatti e non dalle “verità alternative” (in stile Trump), di non sventolare lo spauracchio dell'Europa matrigna. Valutare le esigenze dei cittadini, mostrando che una maggiore integrazione rappresenta la soluzione dei problemi perché offre maggiori benefici, ma senza nascondere gli eventuali costi. Ogni volta che l'Europa ha "messo insieme" (PAC, mercato interno, coesione, Erasmus, moneta, commercio,

 

vaccini, NGEU, ecc.) ha generato convergenza, protezione e progresso per noi europei e per il mondo intero. L’adesione al progetto europeo non può più avvenire in maniera fideistica, come è stato a lungo in passato, cioè frutto della convinzione di un’élite che, attraverso la propria credibilità, la trasmetteva ai propri elettori chiedendo loro un atto di fede. Al contrario, si deve consentire ai cittadini di entrare a pieno nella dimensione europea, toccando con mano costi e benefici. Non è facile, soprattutto perché i principali schieramenti politici euroscettici si sono trasformati in europeisti di facciata.

Abbiamo bisogno di una maggiore democrazia comunicativa sull'Europa, che vuol dire anche distinguere il patriottismo dal nazionalismo, di tornare a parlare e ricercare il bene comune. Solo la volontà esplicita dei cittadini, individuando un bene comune europeo, potrà portare all’Europa «casa comune», con finestre aperte al mondo e non a un’Europa fortezza, soffocata da muri e fili spinati. Non rassegniamoci a un futuro di guerra!

  • Sul fronte della pace, con radicalità evangelica, pensiamo a un uso responsabile delle nostre risorse economiche. Togliamo i nostri soldi alle armi!

La corsa agli armamenti non è la via sicura per conservare saldamente la pace. L’inutilità della guerra è provata dalla storia. Il riarmo straordinario - anche quello previsto dall'UE - rischia di far prevalere la legge del più forte in tante aree del pianeta.

Che l’Europa si doti di una difesa comune, non vuol dire solo riarmo, o meglio, non vuol dire solo aumento delle spese militari dei singoli Stati. La difesa è fatta da tanto altro, cooperazione internazionale, diplomazia, esercito comune (tra l’altro ad oggi, la difesa è materia di competenza dei singoli Stati).

Dobbiamo sempre porci la domanda: quale può essere l'alternativa all'uso delle armi? Chiediamolo ai nostri europarlamentari (che abbiamo votato solo un anno fa). Dobbiamo augurarci che la coscienza critica dei cristiani e di ogni uomo di buona volontà faccia passi avanti in questa direzione.

Prima della guerra ci sono le armi. Quell’immensa industria militare che facciamo finta di non vedere, che pure gode di ottima salute anche grazie ai nostri soldi. E qui i principi e i valori di ciascuno e di tutti noi possono fare la differenza.

Sappiamo scegliere banche smilitarizzate, che garantiscono investimenti non bellici? Chiediamo conto a chi gestisce i pochissimi, pochi o molti risparmi che siano, di utilizzare ‘portafogli’ liberi da qualunque coinvolgimento in conflitti? In tempo di pace sonnecchiare sul versante finanziario personale e comunitario è stata consuetudine, in tempo di guerra è inaccettabile. I soldi sono anche un modo per esercitare la nostra cittadinanza attiva, per dare forma ai principi e ai valori. Il Ministero dell’Economia e delle finanze a luglio di ogni anno pubblica la relazione sui servizi bancari alle imprese armate (banchearmate.org).

Abbiamo un’eredità immensa nel magistero di papa Francesco, che ha fatto passi da gigante su questo tema. Pensiamo al documento Mensuram Bonam (2022) per investitori integrali e alla riforma in chiave trasparenza della Banca Vaticana. Anche la CEI si è mossa con le Linee Guida per investitori cattolici (ad es. tra i criteri di esclusione sarà escluso l’investimento in imprese impegnate nella produzione di armi non convenzionali, come armi biologiche e chimiche, armi nucleari, armi di distruzione di massa, mine antiuomo, con deroga verso esempi particolari di finalità di difesa). L’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù – Istituzione della santa Sede – ha rifiutato la donazione di 1milione e mezzo dalla società Leonardo, perché “inopportuna in questo periodo di guerre”.

 

L’Unione Europea e il dovere di fare la differenza. Non lasciamoci schiacciare dalla grandezza dei problemi che stanno davanti a noi! Abbiamo il dovere di ricercare quei piccoli ma possibili passi che come cittadini europei possono fare la differenza. Insieme!

 

Chiara Tintori, politologa e saggista