“La riforma sanitaria lombarda. A che punto siamo?”
Un’occasione per fare luce su una riforma di cui dal 10 novembre il Consiglio regionale della Lombardia sta discutendo, ma di cui, ad eccezione di qualche accenno di cronaca, si sa poco o nulla. A fornire un’analisi critica della riforma Martino Troncatti, presidente Acli Lombardia; Giuseppe Imbrogno, responsabile welfare Acli Lombardia; Bruno Di Giacomo Russo, portavoce Alleanza contro la povertà Lombardia (nonché presidente delle Acli di Sondrio) e Angelo Orsenigo, consigliere Regione Lombardia.
«Tutti ci aspettiamo da questa riforma un cambiamento della Sanità nel suo complesso – le parole di Marina Consonno, presidente delle Acli di Como, che ha coordinato i lavori - dopo le criticità che si sono trascinate in questi anni, dalle Legge 23 del 2015, con l’allora presidente Maroni, che a sua volta si era caricata di tutte le storture dell’epoca formigoniana. Sistema, il nostro, di cui l’emergenza sanitaria ha contribuito a far emergere le molteplici contraddizioni. Un servizio che ci era sempre stato venduto come eccellente, superiore, unico. Eppure ciascuno di noi, prima o dopo, si è scontrato con problemi quotidiani, sperimentando sulla propria pelle tutte le difformità di un modello annacquato su molti versanti. Solo per citarne alcuni: la mancanza di equilibrio tra pubblico e privato, le cure primarie poco accessibili, la carenza di una medicina territoriale, con medici di base spesso poco raggiungibili; liste di attesa infinite; difficoltà di accesso ai pronti soccorsi, una burocrazia diffusa. Ecco perché abbiamo voluto questo incontro, per informare, ma soprattutto capire meglio a che punto siamo».
Perché questa riforma? «La riforma - spiega Giuseppe Imbrogno - arriva per pura coincidenza dopo due anni drammatici di pandemia. La Legge 23 del 2015 era stata infatti approvata con carattere di sperimentalità, per una durata di 5 anni. Una delle ragioni per cui siamo andati in sofferenza è stato che l’iter legislativo si era concluso, ma l’iter implementativo no, per cui ci si è trovati di fronte ad una macchina nel mezzo di una trasformazione. E gli “aggiustamenti” previsti non fanno immaginare un radicale cambio di direzione. Tra questi la conferma della perfetta equivalenza tra pubblico-privato. Vi sono, d’altro canto, alcuni aspetti potenzialmente interessanti: il ritorno ai distretti, ad esempio, e l’affermazione che il distretto sanitario debba coincidere con uno o più piani di zona è la premessa perché si possa parlare di integrazione tra sociale e socio-sanitario. Altro aspetto interessante è il tentativo di snellire alcuni fardelli burocratici che rendono complicato l’accesso ad alcuni servizi. Ulteriore elemento di interesse è stato il fatto che nel passaggio in Commissione 3° siano stati colmati alcuni vuoti rispetto al ruolo che dovrà spettare al Terzo Settore rispetto all’erogazione di alcuni servizi, mi riferisco in particolare alla presenza del sociale dentro le case della comunità. Le case della comunità dovrebbero essere luoghi in cui sarà possibile trovare il medico di base o il pediatra di libera scelta in forma aggregata, e questo dovrebbe colmare il vuoto della mancanza dei medici sul territorio, e favorire l’accesso ad alcuni servizi sanitari di base: dal prelievo ad alcuni servizi poliambulatoriali, con una forte connessione con la medicina ospedaliera. Oltre a ciò dentro le case di comunità dovrebbero trovarsi anche i servizi sociali dei Comuni (le assistenti sociali) e i soggetti della società civile, del volontariato, della cooperazione di un dato territorio. Ovviamente non saranno tutti presenti in contemporanea, ma con delle turnazioni. Il senso di tutto questo è che per la prima volta in Lombardia dovrebbe esserci quel famoso punto unico di accesso ai servizi che di fatto qui non abbiamo mai avuto».
Pubblico-privato. «Resta, ad oggi, in Lombardia un grandissimo problema di equità nell’accesso – conclude Imbrogno - perché da una parte ho liste d’attesa di un anno, e dall’altra, se pago accorcio i tempi… Questo crea gravi disparità che vanno superate».
«Quella che viene chiamata riforma – denuncia Martino Troncatti, presidente Acli Lombardia – non è altro che un rimaneggiamento legislativo studiato per intercettare i quattrini del Piano nazionale di ripresa e resilienza e in qualche modo tappare le grandi falle che si sono aperte in questi anni. Alle Acli il modello sanitario formigoniano non è mai andato bene. Gli preferivamo quello disegnato da Tina Anselmi, che aveva creato un servizio sanitario universale, nel tempo poi sottoposto a qualche aggiornamento, che faceva delle Asl e dei distretti il punto più vicino alle persone per l’erogazione di servizi socio-sanitari. Purtroppo nel tempo il modello lombardo che ha preso piede, consolidandosi, è stato quello di un forte disequilibrio negli accessi. Un sistema che permetteva di superare le liste d’attesa con l’integrazione del privato, con pagamenti in parte coperti dalle mutue o assicurazioni personali, mentre un’altra fetta di popolazione, 500 mila cittadini lombardi sui 2 milioni e mezzo che ogni anno ricorrono ai servizi socio-sanitari, è sempre rimasta esclusa da questa possibilità, semplicemente perché non poteva permetterselo. La pandemia ha messo a nudo i limiti di questo disequilibrio. E mentre il pubblico andava in crisi, costretto a smantellare reparti per accogliere malati di Covid, non sempre il privato ha risposto allo stesso modo. Pensiamo al S. Raffaele, con i suoi 20 posti letto Covid a fronte di 400 convenzionati… Lo “tzunami” Covid avrebbe potuto costituire l’occasione per un ripensamento più puntuale del nostro sistema socio-sanitario, invece la revisione della Legge 23 è stata sostanzialmente disegnata dentro una logica di tipo conservativo. Fare una vera riforma avrebbe significato metter mano a un nuovo modello organizzativo, superando, ad esempio, la dicotomia tra ATS e ASST. Sotto questo aspetto, invece, il modello resterà lo stesso. Così come non è stato risolto il problema delle liste d’attesa e della formazione dei medici di base, che devono studiare ben 11 anni prima di ottenere le necessarie abilitazioni alla professione. Insomma: i limiti restano tutti. Per noi le aree prioritarie dovevano essere chiari: percorsi di cura, presa in carico e prevenzione, aspetti che solo in parte trovano risposta nelle case e negli ospedali di comunità. Ma si tratta di una risposta di base, non ancora sufficiente. E per questo dovremo dare battaglia, perché nelle case di comunità il terzo settore sia effettivamente presente, con i suoi servizi, i suoi volontari. Occorrerà ragionare bene su come riempire questi “contenitori” perché non siano mura vuote. Gli investimenti che il PNRR permetterà non dovranno servire per comprare palazzi, ma attrezzature, assumere personale qualificato, organizzare nuovi servizi, assicurarne la presenza anche di servizi sociali comunali, così come sarà importante valorizzare i servizi domiciliari. Solo un sistema così impostato potrà permetterci di superare quella disparità tra pubblico e privato frutto di un modello ospedalocentrico che ha penalizzato il territorio, trascurando un’ampia fetta di fragilità. E proprio questo ci chiediamo: che cosa cambierà, davvero, per anziani, minori, disabili con questa riforma?».
«La salute è un diritto per tutti, eppure in questi anni la sanità lombarda ha affermato diritti diseguali – ribadisce Bruno Di Giacomo Russo – favoriti dalla tendenza a concedere la prevaricazione del privato sul pubblico. Oggi abbiamo 250 mila famiglie lombarde in condizioni di povertà, sono cresciute le richieste di accesso agli ammortizzatori sociali, diversificate su un complesso di prestazioni che rimane complicato, che permette ad alcuni di accedere a più misure mentre ad altri a nessuna, tutto questo alimentato da un problema di coordinamento tra servizi nazionale e regionale. Quella che serve è una progettazione condivisa delle politiche sul territorio, un sistema che va semplificato. Quello che ci preoccupa è che, a fronte di queste evidenti problematiche, Regione Lombardia ha fatto una scelta di continuità con il passato, e in discontinuità con i tempi. La riforma cambia per non cambiare, e ad oggi sembra che chi abbia meno possibilità continui a rimanere escluso da un diritto fondamentale. Domiciliarizzazione, presa in cura, presa in carico sono temi su cui dovremo batterci. Per una sanità che sia territoriale, integrata e accessibile deve essere».
A spiegare i contenuti della proposta di riforma il consigliere regionale, evidenziandone le criticità anche Angelo Orsenigo: «Su Como i distretti che verranno creati saranno sei, la loro localizzazione è stata decisa senza alcun dialogo con il territorio. I distretti saranno composti dalle case di comunità, dalle centrali operative territoriali e dagli ospedali di comunità. Le strutture che non saranno subito attive, ma richiederanno del tempo per essere implementate. Questa è una proposta di riforma milanocentrica, che non tiene conto delle diversità di territori come il nostro. Come verranno distribuiti questi servizi in provincia di Como? Nel distretto di Como sorgerà un ospedale di comunità in via Napoleona, con attivazione prevista nel 2023. Avremo una casa di comunità hub sempre in via Napoleona, poi una casa di comunità spoke a Campione d’Italia (2022) e una a Bellagio (2024). Quindi nel distretto canturino-marianese: un ospedale di comunità a Cantù e una casa di comunità hub dentro l’ospedale; un ospedale di comunità verrà creato anche a Mariano Comense, così come una casa di comunità (2023); un ospedale e una casa di comunità sorgeranno anche nel distretto di Menaggio, dentro l’ospedale; altre due case di comunità nasceranno a Porlezza e Centro Valle Intelvi. Altri 3 distretti: Erba, con un ospedale di comunità presso il Fatebenefratelli di Erba e una casa di comunità hub presso poliambulatorio di Ponte Lambro; il distretto Lomazzo-Fino Mornasco, con una casa di comunità hub articolata su due poli, uno a Lomazzo e uno a Fino Mornasco e le riqualificazioni dei rispettivi poliambulatori; il distretto ad Olgiate Comasco, con ospedale di comunità da valutare presso l’RSA Fatebenefratelli di Solbiate e la casa di comunità hub del poliambulatorio hub di Olgiate. In totale in provincia di Como le case di comunità saranno 19, contro le 73 che dovrebbero essere previste in base alle normative nazionali, così come è endemica la carenza di personale: su Como mancano 64 medici di base, e la regione dà la colpa al nazionale, senza strutturare soluzioni adeguate».
Marco Gatti, giornalista
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